“Devi essere truthful to yourself (onesto con te stesso): dì esattamente quello che sei, cosa ti appassiona, cosa ti piace fare, quello che fai. La passione per qualcosa tiene insieme le persone ed è che lì che s’innesca la coerenza e quando fai le cose con coerenza fatichi molto meno “
Gabriele Salvatori, CEO di Salvatori
Chi è Gabriele Salvatori
È il CEO di Salvatori, l’azienda di famiglia e il punto di riferimento indiscusso quando si parla di design applicato alla pietra naturale. È anche un innovatore, parla un ottimo inglese, ha letto due volte il libro manifesto di Patagonia “Let my people go surfing “e la sua frase ricorrente è: “You must be truthful to yourself”.
Perché ho scelto di intervistarlo
Perché mi sono innamorata dell’incipit onesto e schietto della loro “storia” di sostenibilità che campeggia sul sito web dell’azienda: “Abbiamo iniziato a pensare alla sostenibilità già dal 1975, da quando abbiamo scoperto che la polvere sottile creata durante il taglio della pietra si mescolava con l’acqua di lavorazione finendo per confluire nei fiumi limitrofi”
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Il vostro discorso sulla sostenibilità prende le mosse da una criticità intrinseca del vostro processo produttivo: l’inquinamento dei fiumi limitrofi causato dal taglio della pietra. Raccontaci un po’
Si sa, dove c’è produzione c’è inevitabilmente qualche impatto e il settore lapideo ha un processo produttivo che è decisamente impattante per l’ambiente. Si pensi, ad esempio, all’enorme utilizzo di acqua nella lavorazione della pietra per evitare il surriscaldamento degli utensili.
All’inizio usavamo l’acqua del pozzo e dopo le operazioni di taglio del marmo, l’acqua che finiva nel fiume Versilia era inevitabilmente biancastra a causa della polvere che ci finiva dentro, tanto che le foto dall’alto mostravano fiumi di latte che entravano nel mare. La polvere che si depositava sul letto del fiume non faceva passare la luce tra il greto del fiume e la superficie dell’acqua impedendo così la fotosintesi che causava la morte della vegetazione e, di conseguenza, anche quella dei pesci.

Non potevamo più accettare di avere un processo produttivo così impattante, non solo per l’inquinamento dei fiumi, ma anche per l’enorme spreco di acqua. E così abbiamo iniziato a ragionare su come potessimo risolvere il problema e nel 1975 siamo stati tra i primissimi, se non i primi, ad installare un depuratore per il filtraggio dell’acqua che ci ha permesso di riciclarla tutta. L’impianto la fa convogliare in un sistema a circuito chiuso in grado di separare le molecole dell’acqua da quelle del carbonato di calcio. Risultato: acqua trasparente, trasformazione della polvere in marmettola e relativo smaltimento, zero dispersione di acqua.
I primi controlli e attività di regolamentazione nel nostro settore risalgono agli anni ’70 anche se bisogna aspettare i primi anni 2000 per vedere una maggiore sensibilizzazione verso i temi della sostenibilità. Posso dire con orgoglio di aver un po’ anticipato i tempi.
Avete parlato chiaramente dei vostri impatti sul sito web. Da dove arriva tutta questa sicurezza e trasparenza? Non avevate timore di essere accusati di non averci pensato prima?
Confesso che mi ci è voluto del coraggio per fare una dichiarazione così schietta e sfidante perché sapevo che mi sarei tirato dietro delle critiche ma penso che sia più virtuoso fare e sbagliare piuttosto che non fare. Questa sicurezza quindi mi viene dalla convinzione che nella vita, e quindi anche nel business, non potrai mai fare felici tutti e che sarai sempre criticato perché non sarai mai perfetto, soprattutto sul fronte della sostenibilità che è così complessa e sconfinata.
E poi sono convinto che dire la verità possa premiare sempre, perché le persone si fidano di un’azienda che dichiara con trasparenza, correttezza e sincerità qual è il suo impatto ambientale più dannoso e che cosa sta facendo per risolverlo. In Salvatori dobbiamo essere puri, perché i brand quelli fighi sono quelli sinceri, quelli che ti dicono la verità. Anche perché le baggianate le odori lontano un miglio.
Le aziende non sono infallibili, anzi, sono scatole fatte di persone e le persone sbagliano. Sì, insomma, i “doers” (quelli che fanno) mi stanno simpatici e tendo sempre a perdonarli se fanno degli errori perché almeno ci hanno provato. Io mi reputo uno che fa. Posso essere criticato su molte cose ma non voglio che mi si dica di non averci provato a fare meglio.
Su quali altri fronti della sostenibilità avete provato a fare meglio e come lo avete raccontato?
Sicuramente sul fronte degli imballaggi. Abbiamo iniziato negli anni ’90 a muovere i primi passi verso gli imballaggi di carta e di legno riciclati. E più avanti, in particolare dopo il rientro da un mio viaggio in Egitto che mi ha fatto capire quanto le imprese possano incidere sulla vita delle persone, ci siamo attivati per fare una mappatura dei nostri imballaggi fatti di plastica e di polistirolo e di tutto ciò che non è biodegradabile.
Siamo partiti dall’eliminazione delle bottiglie di plastica in azienda che abbiamo sostituito con quelle di vetro ma il vero sforzo è stato, ed è tuttora, il tentativo di eliminare il polistirolo. Lo usiamo perché è il materiale più adatto a proteggere un prodotto pesante come il marmo durante il trasporto.
Da qualche anno ormai collaboriamo con l’Università La Normale di Pisa nella ricerca di un materiale di imballaggio alternativo al polistirolo ma per adesso non siamo ancora riusciti ad eliminarlo se non per gli articoli più piccoli. Avevamo trovato una ditta olandese che produceva un polistirolo biologico ricavato dai funghi ma ha un costo improponibile che lo rende ahimè non sostenibile. Questo nostro processo interno di ricerca di un materiale ecosostenibile alternativo a quello che al momento sembra essere insostituibile negli imballaggi, lo abbiamo raccontato in un numero dedicato della nostra newsletter aziendale e attraverso il nostro impianto narrativo di “storie” pubblicate sul nostro sito web.

Anche sul fronte della selezione dei nuovi designer con cui lavorare ci siamo attrezzati con un mini-vademecum che detta le linee guida da rispettare. Qui descriviamo tutte le cose che non vogliamo: non usare materiali derivati dal petrolio ma solo materiali naturali come legno, pietra, vetro, ferro; non usare resine epossidiche (prodotto che rilascia sostanze chimiche tossiche che è quindi nocivo per l’ambiente ma soprattutto per la salute degli operai), e via dicendo. Questo aspetto di selezione dei designer giusti per noi – e quindi anche per l’ambiente – è un tema che ricorre spesso nella narrazione sul nostro sito web e anche su altri canali di comunicazione.
Ci piace l’idea di raccontare le vicissitudini, i successi e i fallimenti del nostro modo di fare impresa perché questo accorcia le distanze tra noi e le persone che ci seguono e che magari un giorno decideranno di comprare i nostri prodotti ma soprattutto perché vogliamo che la sostenibilità diventi l’orizzonte di senso delle imprese e dei professionisti del nostro settore.
Vi siete ispirati a qualche azienda in particolare nella scelta di narrare non solo i successi ma anche i progressi verso il miglioramento?
Il mio modello di riferimento in questo senso è l’azienda Patagonia (azienda tessile statunitense specializzata in abbigliamento sportivo e da esterni), un esempio che mi aiuta a mantenere la rotta, non per niente ho letto il loro libro-manifesto due volte e l’ho anche regalato ai miei collaboratori. Un’azienda che non solo fa prodotti “fighi” ma è anche un brand figo perché ti racconta per filo e per segno quello che sta dietro al prodotto e tutte le sue peripezie per mantenere la coerenza col proposito aziendale di “utilizzare il business per ispirare e implementare soluzioni per la crisi ambientale”. Questa trasparenza ce l’hanno nel DNA, nella loro cultura aziendale. Ed è così che si costruisce fiducia.
Se il prodotto costa di più non è importante. È l’azienda che, attraverso una buona attività di comunicazione e di marketing, deve saper spiegare perché i suoi prodotti costano di più. Ecco, questo è un altro buon motivo per progettare una buona comunicazione.
Ma il credo più forte che mi guida nella narrazione del nostro modo di fare impresa è la convinzione che la verità sia l’unica strada da seguire se si vuole costruire fiducia ed essere apprezzati. Comunicare la sostenibilità ti fa guadagnare punti e sono convinto che sempre di più, andando avanti, i brand che non hanno dei contenuti veri, verranno ignorati. Perché alle generazioni giovani non gliene frega niente se sei famoso. Se non si rispecchiano nei valori che tu azienda dichiari e comunichi, non li potrai mai ingaggiare.

Devi dare un messaggio sincero, non pensato per piacere a tutti. Devi essere truthful to yourself: dì esattamente quello che sei, cosa ti appassiona, cosa ti piace fare, cosa fai.
Devi accettare l’idea di non pigliare tutti ma solo quelli che apprezzano il tuo modo di essere, allora si diventa amici. La passione per le stesse cose tiene insieme le persone ed è lì che s’innesca la coerenza e quando fai le cose con coerenza fatichi molto meno.
Qual è stata la motivazione che vi ha spinti a voler comunicare di più la vostra sostenibilità e con meno reticenza?
Mi accorgo di essere sempre stato preso più dal fare che dal raccontare quello che facevamo. Forse non avevo ancora colto fino in fondo l’importanza della comunicazione ma mi sono illuminato, in questo senso, quando ho iniziato a desiderare di essere copiato dai miei competitor. Ed è allora che ho capito che era arrivato il momento di comunicare in maniera più strutturata il nostro modo di fare impresa. Mi sono detto: ma se io, mostrando e raccontando quello che faccio, incoraggiassi i miei competitor a copiarmi andando nella direzione della sostenibilità, potrei usare questa influenza a mio vantaggio. Perché la sostenibilità è troppo complessa per essere affrontata in solitaria.
Lo dimostra ad esempio il fatto che a volte siamo dovuti ricorrere più volte agli scarti di lavorazione di altre aziende competitor per poter far fronte alla richiesta di mercato del nostro composto ecosostenibile per eccellenza – il Lithoverde® – realizzato interamente con materiali di recupero, perché avevamo esaurito il nostro. Se questa sensibilità al riciclo non fosse diffusa nel settore lapideo, ci troveremmo a volte in difficoltà con le vendite. Le buone pratiche di sostenibilità vanno comunicate così le imprese trovano lo stimolo all’emulazione e al miglioramento e non si è più da soli.
Quando avete iniziato ad occuparvi seriamente della comunicazione del vostro modo di fare business responsabile?
È nel 2010 che ho iniziato a maturare una maggiore consapevolezza dell’importanza della comunicazione, cioè l’anno in cui abbiamo partecipato al Fuori Salone di Milano con l’installazione House of Stone realizzata interamente con texture Lithoverde® dall’architetto britannico John Pawson, il padre del minimalismo. L’installazione è piaciuta così tanto che è stata riconosciuta dal New York Times come la più bella opera vista in quell’edizione del salone ed è finita anche sulle pagine del Financial Times. Ma la maggiore soddisfazione è arrivata dal Premio Nazionale per l’Innovazione vinto dal protagonista del salone, il Lithoverde® appunto, premio promosso dalla Fondazione Cotec (Fondazione per l’innovazione tecnologica) che ci ha annoverato tra le trenta aziende più innovative d’Italia.

Questo evento ci ha dato la spinta per muovere i primi passi verso l’ingegnerizzazione e la comunicazione di prodotto, tanto che fu di allora la decisione di attivare un ufficio stampa. Tuttavia, è solo negli ultimi 2-3 anni che abbiamo iniziato ad occuparci di comunicazione in modo strategico con un processo strutturato fatto di piani editoriali.
Che cos’è il Lithoverde®?
Lithoverde® è una finitura realizzata al 99% da scarti di lavorazione della pietra naturale. Il restante 1% è composto da una resina naturale a base di soia che contribuisce a migliorare le qualità meccaniche della pietra. In altre parole, Lithoverde® è la prima pietra riciclata al mondo, è il nostro prodotto di punta per bellezza, sostenibilità e performance, quello che ci ha permesso di fare il salto nel posizionarci come azienda che ha contribuito ad elevare lo standard del settore lapideo facendolo evolvere verso la lavorazione della pietra naturale e il mondo del design.
Invece di buttare via le lastre di pietra scheggiate – con un notevole risparmio sullo smaltimento – ne abbiamo ricavato dei ritaglietti di mattonelle di formato più piccolo rispetto allo standard e ci siamo messi a comporre dei pattern di Mondrian – dal nome del pittore olandese Piet Mondrian – prendendo spunto dal sistema dei muri a secco. Oggi il Lithoverde®, che noi chiamiamo anche marmo stile Mondrian, è il prodotto con il punteggio Leed più alto (Leadership in Energy and Environmental Design) e il nostro maggiore contributo al design sostenibile che può trovare spazio in molteplici applicazioni commerciali e residenziali.
Qual è l’impalcatura su cui poggia il vostro piano di comunicazione e alla quale fate ricondurre ogni vostra scelta e strategia comunicativa?
Tutta la nostra comunicazione poggia sui miei valori che poi sono quelli della mia famiglia e quindi sui valori e la cultura dell’azienda. La nostra comunicazione prende le mosse da chi siamo e da cosa rappresentiamo. Il nostro forte orientamento alla sostenibilità viene soprattutto da dentro, cioè dalle persone dell’azienda che con il loro brulicare di idee dimostrano di essere appassionate, entusiaste e curiose. Ci si manda messaggi a volte fino alle 2 di mattina – sì, lo so, siamo alla follia – solo perché ci è venuta in mente una cosa importante o un’idea che ci entusiasma e che abbiamo voglia di condividere. Uno degli ultimi messaggi ha riguardato proprio il mondo delle B-Corp: “Guarda Gabriele, questi siamo noi, abbiamo tutte le carte in regola per diventare una B-Corp!” Confesso che non conoscevo le Società Benefit, né la certificazione di B-Corp. Queste sono cose che mi hanno fatto scoprire i miei collaboratori. Quindi non sarebbe onesto dire che parte tutto da me perché questa spinta verso la sostenibilità arriva da tutti e credo sia la prova che abbiamo fatto un buon lavoro sulla condivisione dei valori.
Infatti, la nostra matrice valoriale – innovazione, qualità, bellezza, sostenibilità, rispetto per le persone – è anche il focus dei nostri colloqui di lavoro. Nel momento della selezione delle persone ci tengo molto a presentare la cultura che abbiamo costruito, che è una cultura sana, fatta di collaborazione, lealtà e candore. Tra i miei collaboratori preferisco avere una persona meno performante ma leale nei confronti di sé stessa e dei colleghi, piuttosto che avere una superstar delle vendite che schiaccia gli altri pur di emergere.
Non tollero il parlarsi alle spalle o la zizzanietta: su queste cose io taglio le teste perché se non lo facessi sarebbe come permettere ad un cancro di insinuarsi in azienda, farebbe marcire tutto. Ed è qui che il leader ha un’enorme responsabilità perché se tu accetti questo modus operandi fai passare il messaggio che qui, essere degli stronzi premia, ed è l’ultima cosa che voglio.

Se condividiamo gli stessi valori, è più facile remare tutti nella stessa direzione che è quella di sviluppare nuovi modi per reinterpretare, far crescere e far evolvere l’industria del nostro settore verso il design sostenibile, forti soprattutto della nostra reputazione nel campo dell’innovazione applicata alla pietra naturale.
Avere il medesimo obiettivo ci velocizza, ci rende tutti più responsabili, credibili e capaci di concentrarci su come fare le cose in modo efficace.
E sul fronte della quotidianità, c’è un qualche aneddoto particolarmente significativo che vuoi raccontarci e che, meglio di altri, testimonia la vostra cultura aziendale?
Un giorno uno dei nostri mulettisti, mentre lavorava sul piazzale dove i camionisti arrivano a scaricare la merce, ne ha visto uno gettare una sigaretta per terra. Non gliel’ha fatta passare liscia. È andato da lui e gli ha chiesto di raccogliere la sigaretta perché “qui non si fa così”. Infatti il piazzale è così pulito che ci potresti mangiare sopra.
E poi ci sono i colloqui autogestiti per la selezione delle persone che lavoreranno in cantiere: non ci affidiamo, infatti, al recruiting esterno ma al passaparola e sono gli operai che si scelgono i nuovi colleghi. Le persone devono incastrarsi bene nell’ambiente di lavoro che abbiamo costruito e nessuno meglio degli operai conosce l’ambiente in cui si inseriranno i nuovi arrivati.
Ma l’aneddoto recente più significativo e che ha contribuito a rafforzare ulteriormente il senso di appartenenza all’azienda, è stato il mio video-discorso fatto all’inizio del lockdown dove ho promesso che nessuno avrebbe perso il lavoro, a costo di vendere alcuni asset aziendali. Un messaggio che ha fatto piangere le persone e che le ha fatte sentire tra gente per bene di cui si possono fidare. Capitano nella vita quei moments of truth – uno spartiacque tra le stronzate e le cose che contano davvero – in cui hai l’opportunità di dimostrare con i fatti quello che hai sempre predicato di voler fare.
In sintesi, quali sono i comportamenti che fanno di voi un brand coerente e quindi credibile dal punto di vista della sostenibilità?
Senza dubbio la selezione dei collaboratori che credono nei nostri valori è la base da cui partire per costruire la nostra coerenza e quindi la nostra credibilità. Abbiamo dipendenti che hanno iniziato a lavorare con noi a 18 o 19 anni dopo il liceo e che rimangono in azienda fino alla pensione. Questo credo sia un indicatore molto rilevante per un’impresa che ha deciso di voler portare avanti la cultura della sostenibilità.
E poi c’è tutto il resto: la ricerca e l’utilizzo di materiali naturali e con il minor impatto possibile sull’ambiente (Lithoverde® è la prima superficie in pietra completamente riciclata), l’innovazione di processo per ridurre l’impatto ambientale (depurare e riciclare l’acqua usata per il taglio della pietra), la scelta dei designer con cui collaboriamo (solo chi vuole aderire alle nostre linee guida sulla sostenibilità può lavorare con noi), la continua ricerca di un packaging sostenibile che ci porti ad eliminare la plastica (un processo di ricerca complesso e molto sfidante che richiede tempo), la collaborazione con il mondo universitario, la formazione per i nostri collaboratori, i colloqui di lavoro auto-organizzati nel reparto produttivo.
Abbiamo inoltre in programma per quest’anno (2021) la realizzazione del nostro primo bilancio di sostenibilità e un paio di progetti in cantiere sul fronte della valorizzazione del territorio e della sua comunità.
E in termini di processo interno, come siete organizzati per la gestione ottimale delle attività di comunicazione? Chi fa che cosa, che strumenti usate, qual è il vostro target di riferimento?
La nostra comunicazione è prevalentemente fatta in casa, non ci affidiamo ad agenzie esterne se non per l’ufficio stampa. Per il resto delle attività ci affidiamo alle nostre persone interne che sono naturalmente appassionate del nostro lavoro e crediamo che questo sia un valore aggiunto e che renda anche più facile, oltre che migliore, la gestione stessa della comunicazione.
I contenuti sono scritti da tre ragazze che abbiamo scelto per la loro sensibilità verso il design e verso i temi della sostenibilità. E hanno tutte uno stile di scrittura semplice e autentico, molto in linea con il nostro prodotto. Una di loro scrive anche per il New York Times e un’altra è di madre lingua inglese (Nuova Zelanda) e traduce tutto quello che scriviamo visto che esportiamo il 90% della nostra produzione. Abbiamo inoltre due persone che si occupano della parte grafica perché per noi la qualità e la bellezza vanno raccontate soprattutto attraverso le immagini. Ultimamente abbiamo anche assunto una regista video-maker tanto che a volte, in azienda, sembra di stare in un vero e proprio studio televisivo.
Dietro a tutto questo c’è una regia molto strutturata che viene coordinata dal nostro direttore marketing. Da quando ci siamo decisi a progettare di più la nostra comunicazione, non è stato semplice per nessuno stare dietro al lavoro certosino dei piani editoriali ma in questo modo, con un processo più strutturato, risulta tutto più curato e ben orchestrato. Tutto viene pianificato con tre mesi di anticipo e l’ultima parola spetta a me. Voglio controllare ogni riga ma non c’è quasi mai nulla da correggere perché sono tutti molto bravi e sanno cosa fare. Infatti mi hanno tirato le orecchie più volte perché ci mettevo troppo, all’inizio, a dare il mio riscontro e siccome non voglio creare colli di bottiglia, mi sono velocizzato nella fase di approvazione dei testi.
Il target principale a cui ci rivolgiamo è l’architetto. Per fortuna questa evoluzione verso il sostenibile si sta diffondendo molto anche negli studi di architettura e di questo sono davvero molto contento.
Puoi raccontarci qualcosa dei due progetti sociali che avete in cantiere e di cui ci hai accennato prima?
Certo, sono due progetti destinati ad avere un forte impatto sociale, un impatto sulle persone. Il primo riguarda il recupero del vecchio mestiere dell’artigiano, di quegli antichi saperi che si apprendevano in bottega. Pietrasanta, che è proprio dalle nostre parti, è infatti l’area geografica italiana per eccellenza a vocazione artigianale dove regna l’artigianato dei mosaici, del marmo e del bronzo.
Il mosaicista più giovane ha 83 anni ed è ancora innamorato del suo mestiere, infatti non chiede altro che continuare a lavorare. Come lo chiede anche Sergio, rifinitore e ornatista in pensione di ben 96 anni ma che ha in mente tutt’altro che la pensione. Il suo pensiero fisso infatti è quello di cambiare la sua macchina ormai molto vecchia per la lavorazione del marmo. L’entusiasmo che questi artigiani hanno per il proprio lavoro è ciò che li tiene vivi e noi vorremmo mettere in piedi una scuola di artigianalità, una bottega che possa richiamare giovani, e non solo, da tutto il mondo, che vogliano formarsi e apprendere questo mestiere dalle mani dei migliori maestri.
Ho già iniziato a muovermi e forse ho individuato un edificio abbandonato da recuperare e dedicare alla scuola artigianale.
Sì, insomma, l’idea è quella di recuperare non solo un mestiere antico e bellissimo come quello dell’artigiano, ma anche aree dismesse e persone dismesse dal lavoro e che non chiedono altro che ritornare a vivere con un senso.
L’altro grande progetto riguarda le persone con autismo, alcune di loro le conosco di persona e sono vicine a me. Il loro grande dramma si verifica quando crescono e diventano adulti: il rischio allora è quello dell’emarginazione, la situazione più deleteria per loro perché gli impedisce di evolvere. Il mio desiderio è quello di creare una fondazione che abbia magari un comitato tecnico-scientifico e che sia in grado di agevolare l’incontro tra queste persone autistiche – che hanno determinate caratteristiche di precisione e di cura del dettaglio – e le aziende dove possono essere inserite in contesti protetti, adatti a loro.

Le risorse che un’azienda può mettere in campo – vivacità, tempismo, organizzazione, efficacia, denaro – possono sopperire alle carenze di un apparato istituzionale che spesso non riesce a dare il supporto adeguato a queste persone. Con questi due progetti sento di poter esercitare il mio dovere di imprenditore che ha la responsabilità di restituire qualcosa alla società, perché credo che il vero stimolo della vita sia proprio quello di poter avere un impatto sociale.
Foto e ringraziamenti
Tutte le foto dell’articolo sono a cura dell’azienda Salvatori.
Ringrazio Gabriele per essersi messo un po’ a nudo in questa intervista e per aver condiviso tutto il suo entusiasmo da vero innovatore. Perché si sa, dove c’è innovazione c’è sostenibilità.
Continuate a leggere le loro storie sul sito web dell’azienda – www.salvatori.it – e a farvi ispirare dalla narrazione del loro modo di fare impresa.
Nota
L’intervista ha l’obiettivo di raccogliere e divulgare le buone pratiche aziendali di comunicazione e narrazione della sostenibilità per fare cultura e per incoraggiare le altre imprese ad uscire dalla reticenza o dalla paura di esporsi.
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